A proposito di controversie sul "lavaggio del cervello"

Una prospettiva cattolica

Massimo Introvigne

[Il testo dell’intervento - rivisto dall’autore - rappresenta la trascrizione di uno stralcio da una conferenza tenuta ad Alba (Cuneo) il 6 novembre 1998, per cui mantiene uno stile "parlato" ed è privo di riferimenti e apparato critico in nota]

Si possono dire molte cose sul "lavaggio del cervello" (o "brainwashing") sul piano psicologico, sociologico, storico, e così via e, di fatto, mentre gli studiosi e i movimenti anti-sette si trovano in disaccordo - e tale disaccordo spesso si è espresso in episodi dove la cortesia non è precisamente la norma fondamentale di comportamento - , nella generale bagarre si rischia di perdere di vista la rilevanza pastorale che il tema ha anche secondo un’ottica squisitamente cattolica. In questo ultimo periodo le polemiche - aventi per la verità origini non recentissime - sono state al centro di un acceso dibattito fra l’ambiente accademico - in maniera particolare il Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR) - e alcuni esponenti del movimento anti-sette.

L’eco di queste si è fatto sentire anche in alcuni ambienti cattolici, i quali, facendosi portavoce della tendenza anti-sette, obiettano sostanzialmente al sottoscritto e al CESNUR di avere un atteggiamento irenico perché negando e il lavaggio del cervello si finirebbe per prendere sul serio le idee delle "sette".

A questa obiezione, senza sprecare ulteriori fiumi di inchiostro su argomenti ormai al centro di un ampio dibattito, si può rispondere con qualche considerazione.

Innanzitutto, prendere sul serio le idee non significa essere irenici; un mio libro si intitola Idee che uccidono. Le cattive idee uccidono, questa decisamente non è una nozione irenica. Al contrario chi non si interessa delle idee corre parecchi rischi in direzione del relativismo. In questa sede vorrei sottolineare il rischio che corre il cattolico accettando l’idea del lavaggio del cervello. Finisce per sostenere che le idee si dividono in libere (accettate liberamente) e non libere (accettate perché qualcuno te le inculca lavandoti il cervello). Questa è un’idea tipicamente relativista: tolte di torno le idee non libere (che forse sono "cattive"), tutte le idee libere sono buone. Niente affatto: ci sono idee scelte liberamente che sono cattive. Ci sono scelte fatte liberamente che sono moralmente sbagliate. Per il cristianesimo le scelte sbagliate non sono sbagliate perché non corrispondono alla nostra vera volontà (che non è infallibile). Sono sbagliate perché si è scelto - certo con maggiore o minore grado di consapevolezza - il male. Questa è una nozione tipica del cristianesimo. Si chiama peccato. Il mondo precristiano non credeva che le scelte fossero veramente libere. Derivavano da un sortilegio (così simile al lavaggio del cervello), dal capriccio di un Dio, da una vita passata di cui non sappiamo nulla. Il cristianesimo ha donato al mondo la libertà, che comporta anche la responsabilità: le scelte sono libere. Nessuno ci costringe a scegliere il male. Questo ci tranquillizza, ci libera dalle paure infondate ma ci rende anche responsabili. Se scegliamo il male liberamente, pecchiamo.

L’American Psychological Association (APA) nel 1987 (è la memoria Molko) criticava il "lavaggio del cervello" perché, diceva, avrebbe reso impossibile il funzionamento dei tribunali. Se le scelte non sono libere ma derivano da pressioni di gruppo - e la mafia o una banda di delinquenti sono in grado di esercitare una pressione psicologica molto più forte di una "setta" - è impossibile condannare. Io ho paura per i tribunali, ma ho ancora più paura che queste teorie rendano impossibile il funzionamento dei confessionali. Se le scelte cattive non sono libere, cade il peccato e anche la confessione. Purtroppo, uno psichiatra cattolico, in un recente libro dove difende la teoria del "lavaggio del cervello", evoca il cane di Pavlov. Era quello psichiatra sovietico che cercava di dimostrare che la libertà non c’è suonando un campanello tutte le volte che dava da mangiare al cane; alla fine suonando il campanello al cane veniva fisicamente l’acquolina in bocca anche se il cibo non c’era. A Pavlov diedero il premio Nobel e non dubito che sapesse molto dei cani. L’errore della psichiatria sovietica - che si è servita delle sue idee, per esempio, nei GULag - e di chi la segue oggi, è pensare che gli uomini non siano diversi dai cani. Il cane se fa qualcosa di male non ha colpa, non fa peccato perché non è libero. L’uomo invece sì.

E’ venuto il momento di dire chiaramente che le idee non si dividono in abbracciate liberamente e non liberamente ma in vere e false. E che chi abbraccia le idee false è coinvolto - con minore o maggiore responsabilità - in una logica di peccato. Altrimenti chi urla più forte, chi propone una prospettiva urlata su questi problemi non solo non li risolve, ma in realtà fa propaganda a quello stesso relativismo che dice a parole di condannare.

 

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