Coelho e il suo volume Veronica decide
di morire
(da «Avvenire»
- Agorà di domenica 22 agosto 1999)
IL CASO Confessione choc del brasiliano
autore di best seller: "Da
ragazzo sono stato in manicomio"
COELHO,
L'ULTIMO SCANDALO
DELL'ALCHIMISTA
Chiara Zappa
"Tra la normalità e la follia - che, in fondo,
sono la stessa cosa – esiste uno stadio intermedio: si chiama "essere
diversi". E le persone hanno sempre più paura di "essere
diverse"". Così Paulo Coelho, nella confessione pubblicata ieri in
prima pagina dal "Corriere della Sera", commentava le vicende della
sua burrascosa giovinezza e il suo desiderio di "essere un artista"
che, nel Brasile della dittatura militare, lo portò a soli 18 anni, ad essere
ripetutamente internato in diversi ospedali psichiatrici.
Rivelazione impegnativa per l'autore di best seller
quali L'Alchimista e Monte Cinque, ma anche un'ottima occasione
per promuovere il suo ultimo romanzo, Veronika decide di morire, che
uscirà in Italia il primo settembre per Bompiani. Il libro infatti - scritto da
Coelho utilizzando il proprio "ego femminile" - pur essendo un'opera
di fantasia è ispirato alla sua esperienza in manicomio, che paradossalmente lo
portò, tra numerosi travagli, a rendersi conto della necessità di andare
incontro al proprio destino e affrontare "quel combattimento che avevo
sempre temuto e sfuggito: la lotta per un sogno". Il 52enne scrittore
brasiliano non è comunque nuovo a dichiarazioni ad effetto e rivelazioni
controverse sul proprio passato. Le biografie dei primi anni di successo lo
ritraevano come un ex hippy tutto sex, drugs and rock'n'roll, militante di
sinistra fuoriuscito dal Paese per ragioni politiche e autore di canzoni legato
ad ambienti rocchettari, fino al suo avvicinamento a una versione molto
"personalizzata" di quello che lo scrittore presenta come
cattolicesimo (d'altra parte Coelho non ha mai nascosto la propria simpatia per
la "creatività" in fatto di religione).
Il casuale ritrovamento, l'anno scorso, di una
videocassetta registrata a Rio de Janeiro nel 1989 da una troupe di Canale 5,
svelò un nuovo particolare, quanto meno bizzarro, della vita passata dell'autore
di Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto: prima di diventare
uno scrittore di fama internazionale, Paulo Coelho si dedicava a pratiche esoteriche.
La cassetta lo mostrava infatti avvolto in una cappa nera, mentre agitava una
spada ricurva sopra un braciere ardente, in una imbarazzante versione di mago
ed esperto in incantesimi. "Il mio nome è Paulo Coelho , sono brasiliano,
ho 41 anni e pratico la magia tradizionale", diceva in quel filmato.
A quanto pare questo eccellente rappresentante della
letteratura ispirata al New Age (che tuttavia si dichiara contrario al
sincretismo religioso) nella sua vita ha voluto provare le esperienze più
disparate prima di giungere a quella considera una sintesi convincente di
valori esistenziali da offrire, attraverso i suoi romanzi, ai propri lettori.
Ai quali, con la sua ultima opera, intende svelare "il rischio di essere
diverso e l'orrore di essere uguale".
(da «Corriere
della Sera» di sabato 21 agosto
1999)
DALL'"ALCHIMISTA"
A "VERONIKA"
Un successo da 23 milioni di copie
Paulo Coelho, autore
di questo articolo, è nato a Rio de Janeiro nel 1947. Il suo nuovo romanzo,
"Veronika decide di morire", che uscirà in Italia il primo settembre,
è ispirato alla sua esperienza in manicomio. Dopo un lungo periodo di
vagabondaggio in giro per il mondo è tornato in Brasile dove è stato attore,
autore di teatro e di televisione, giornalista, paroliere di numerosi musicisti
brasiliani. Ha esordito nella narrativa nel 1987 con "O diario de um
mago" in cui racconta la sua esperienza lungo la strada del pellegrinaggio
per Santiago de Compostela, ma è stato con il secondo libro, "L'alchimista",
storia di un itinerario di iniziazione tra l'esoterico e lo spirituale, che ha
ottenuto un grande successo in tutto il mondo. I diritti cinematografici del
libro, che ha tra i suoi lettori anche il presidente americano Bill Clinton e
la rockstar Madonna, sono stati acquistati dalla Warner Bros. In Italia sono
stati tradotti, oltre a "L'alchimista", anche "Manuale del
guerriero della luce", "Monte Cinque" e "Sulla sponda del
fiume Piedra mi sono seduto e ho pianto", tutti da Bompiani. I suoi romanzi
hanno venduto oltre ventitré milioni di copie in tutto il mondo e sono stati in
testa alle classifiche dei bestseller, oltre che in Brasile, anche in molti altri
Paesi, dalla Francia all'Australia, da Israele all'Argentina. Paulo Coelho
collabora regolarmente al quotidiano brasiliano "O Globo" ed è impegnato
nel progetto internazionale dell'Unesco per il dialogo interculturale. Sabato
11 settembre sarà a Mantova ospite del Festival della letteratura che si svolge
dall'8 al 12.
CONFESSIONI A 18 anni si comportava da
artista maledetto, così i genitori lo
fecero ricoverare in un ospedale psichiatrico. Una lunga odissea
che ha
ispirato il suo nuovo libro
COELHO - I
MIEI GIORNI IN MANICOMIO
"Dopo anni ho capito che bisogna avere la forza di essere diversi"
"Una notte tornai ubriaco e al mattino fui svegliato da due infermieri"
di PAULO COELHO
A diciott'anni
credevo che il mondo dei miei genitori e il mio potessero convivere
pacificamente. Mi sforzavo di avere dei buoni voti a scuola (frequentavo un
istituto di gesuiti), il pomeriggio lavoravo, ma al calar della sera cercavo di
vivere il mio unico sogno: "essere un artista". Poiché non sapevo
come diventarlo, per prima cosa decisi di entrare in un gruppo amatoriale di
teatro. Quantunque non pensassi di intraprendere la carriera di attore, per lo
meno potevo stare con persone con le quali dividevo interessi e affinità.
Purtroppo i miei
genitori non ritenevano che due mondi talmente lontani potessero convivere.
Così, un bel giorno, successivo a una notte in cui tornai a casa ubriaco, fui
svegliato da due muscolosi infermieri. Erano nella mia stanza e mi guardavano.
"Devi venire
con noi", disse uno.
Mia madre piangeva;
mio padre cercava di dissimulare il suo turbamento emotivo. "è per il tuo
bene", disse. "Devi fare alcuni esami".
Fu così che
iniziarono le mie peregrinazioni negli ospedali psichiatrici. Mi ricoveravano,
e venivo sottoposto ai più svariati trattamenti ma, alla prima occasione,
fuggivo, vagando fino allo stremo. Allora tornavo a casa dai miei genitori e
trascorrevamo un periodo simile a una luna di miele. Riprendevo a frequentare
la scuola e subito ricercavo quelle che la mia famiglia definiva "cattive
compagnie": ed ecco che ricomparivano gli infermieri.
Nella vita esistono
battaglie che hanno soltanto due epiloghi possibili: o ci distruggono, o ci
rendono più forti. L'ospedale psichiatrico fu una di queste battaglie.
Una sera,
conversando con un altro degente, dissi: "Vuoi sapere una cosa? Penso che
ogni uomo, in qualche momento della propria vita, sogni di diventare presidente
della repubblica. Tuttavia, né tu né io possiamo aspirare a questo: la storia
della nostra esistenza ci accompagnerà per sempre".
"Allora non
abbiamo niente da perdere", replicò lui. "Possiamo fare tutto ciò che
ci passa per la mente".
Sentii che aveva
ragione. La situazione nella quale mi trovavo era talmente inusitata, talmente
estrema che presupponeva un aspetto che fino ad allora avevo ignorato: la
libertà totale. Gli sforzi compiuti dalla mia famiglia affinché fossi uguale
agli altri avevano portato a un risultato diametralmente opposto: ero una
persona completamente diversa dai miei coetanei.
Durante quella
stessa notte, analizzai il mio futuro. Una possibilità era quella di divenire uno
scrittore; un'altra - che mi sembrava assai più praticabile - quella di
diventare definitivamente matto. Lo stato mi avrebbe mantenuto, non avrei
dovuto lavorare mai più né assumermi una qualche responsabilità. Ovviamente
avrei dovuto trascorrere un lungo periodo in manicomio, ma per esperienza
diretta sapevo che i ricoverati non si comportavano come i matti dei film
hollywoodiani: tranne che per i casi patologici - rappresentati dai catatonici
o dagli schizofrenici - tutti gli altri erano in grado di parlare della vita
mostrando una rara originalità nelle valutazioni. Talvolta avevano degli
attacchi di panico, di depressione, di aggressività, ma erano fenomeni
transitori.
Nella casa di cura
il più grande pericolo che corsi non fu il veder svanire le chance di diventare
presidente della repubblica, ma il pensare che la situazione in cui mi ero
trovato fosse normale (parimenti non può essere considerato negativo il fatto
di venir reputato un emarginato o di essere trattato in modo ingiusto dalla mia
famiglia - in cuor mio capivo perfettamente che i ricoveri erano un disperato
atto d'amore, di super-protezione).
Quando uscii per la
terza volta dall'ospedale, reiterando il ciclo di fuga/vagabondaggio/ritorno a
casa/luna di miele con la famiglia/ cattive compagnie/nuovo ricovero, avevo
quasi vent'anni, e potevo dirmi assuefatto a una simile cadenza. In
quest'occasione, però, sentivo che qualcosa era cambiato.
Malgrado fossi
tornato a ricercare le "cattive compagnie", i miei genitori si
mostrarono riluttanti verso un nuovo ricovero: non lo sapevo, ma si erano ormai
convinti che fossi un caso disperato; a questo punto preferivano avermi accanto
a sé, mantenendomi per il resto della vita.
Il mio stato di
salute peggiorava, diventavo sempre più aggressivo, ma nessuno parlava di ricoverarmi.
Seguì un periodo di entusiasmo, di voglia di fare, durante il quale cercai di
sfruttare la mia ipotetica libertà per vivere - finalmente - la mia vita di
"artista". Abbandonai il lavoro che mi era stato trovato e mi dedicai
esclusivamente al teatro e alla frequentazione dei ritrovi degli intellettuali.
Per un lungo anno, feci soltanto ciò che mi piaceva; poi il gruppo teatrale fu
sciolto dalla polizia politica e i ritrovi furono messi sotto sorveglianza.
Allora i miei racconti venivano sistematicamente rifiutati dagli editori e
nessuna delle ragazze che frequentavo voleva mettersi con me: ero un giovane
senza futuro, senza una carriera definita, inoltre non mi ero neppure iscritto
all'università.
Fu così che, un
giorno, decisi di distruggere la mia camera. Era un modo per dire: "Ma non
capite che non ce la faccio più a stare qua fuori? Non riuscirò mai a lavorare,
non sarò mai in grado di realizzare il mio sogno: credo che abbiate ragione
voi! Io sono matto, e voglio tornare in manicomio".
Com'è ironico il
destino... Quando ebbi distrutto completamente la mia camera e vidi con
sollievo che i miei genitori telefonavano all'ospedale psichiatrico, il fato
volle che il medico curante fosse in ferie.
Mandarono un
tirocinante con due infermieri. Quando il sostituto mi vide tra i cumuli di
libri stracciati, dischi fracassati, tende distrutte, fece uscire sia i miei
genitori che gli infermieri. "Che cosa succede?" mi domandò.
Io non risposi. Un
matto si deve comportare come se fosse assente dalla realtà. "Piantala con
le stupidaggini", disse il medico. "Ho visionato la tua cartella: tu
non sei affatto matto. Non ti farò ricoverare".
Mi prescrisse dei
calmanti e se ne andò, dicendo ai miei genitori - io lo seppi in seguito - che
ero affetto dalla "sindrome da ricovero": le persone normali che per
un certo periodo sono vissute in una situazione di anormalità - depressione,
panico, ecc. - arrivano a utilizzare la malattia come unica ipotesi di vita.
Ossia scelgono di essere malate, giacché essere normali è molto faticoso.
I miei genitori
ascoltarono il consiglio del tirocinante e non mi fecero ricoverare mai più: da
quel momento non avrei più avuto il conforto della follia. Dovevo leccarmi le
ferite da solo; dovevo perdere alcune delle mie battaglie, vincerne altre; in
molte occasioni dovevo rinunciare al mio sogno impossibile, accettando lavori
"burocratici". Poi un giorno abbandonai tutto per l'ennesima volta.
Dopo il pellegrinaggio a Santiago de Compostela, capii che non avrei potuto
continuare in quel modo, evitando il confronto con il mio destino: "essere
un artista". Nel mio caso specifico, diventare uno scrittore. Così, a
trentotto anni, decisi di scrivere un libro, affrontando quel combattimento che
inconsapevolmente avevo sempre temuto e sfuggito: la lotta per un sogno.
Trovai un editore.
Quel primo libro (Diario di un mago, che narra l'esperienza del Cammino di Santiago)
mi condusse all'Alchimista, che mi portò a scrivere altri libri, i quali mi
spinsero a fare delle traduzioni che, a loro volta, mi spronarono a tenere
conferenze e discorsi in tutto il mondo. Avevo rimandato il mio sogno per lungo
tempo, ma adesso mi rendevo conto che non era poi così impossibile: l'universo
cospira sempre in favore di coloro che lottano per ciò che desiderano.
Nel 1977, alla fine
di un lungo e faticoso tour promozionale in tre continenti, cominciai ad
avvertire qualcosa di molto strano: quello che era stato il mio desiderio nel
giorno in cui avevo distrutto la mia stanza, ora sembrava essere diventato
un'aspirazione collettiva. Le persone preferivano vivere in un immenso
manicomio, seguendo religiosamente delle regole dettate da chissà chi,
piuttosto che lottare per il proprio diritto di essere diversi. Durante un
viaggio aereo verso Tokio, lessi su una rivista questa notizia: "Una
statistica canadese dice che il 40% delle persone comprese tra i 15 e i 34
anni, il 33% di quelle tra i 35 e i 54 e il 20% di quelle tra i 55 e i 64
presentano turbe psicologiche. Un individuo su cinque manifesta una qualche
forma di malattia mentale".
Io pensai: il Canada
non ha mai subito una dittatura militare ed è considerato il Paese con la più
alta qualità di vita del mondo, come mai allora ci sono tanti matti e perché
non stanno in manicomio?
Questa domanda mi
condusse a un'altra: che cos'è esattamente la follia?
Trovai la risposta
per entrambe. Per la prima: le persone non vengono internate se rimangono socialmente
produttive. Se sei in grado di arrivare al lavoro alle 9 e uscire alle 17, non
vieni considerato incapace dalla società. Non importa se dalle 17.01 alle 8.59
del giorno seguente te ne stai inchiodato davanti al televisore in uno stato
catatonico, se sfoghi le tue fantasie sessuali più perverse attraverso
internet, se resti immobile a fissare una parete colpevolizzando il mondo e
sentendoti incompreso, in preda al panico all'idea di uscire di casa, con manie
ossessivo-compulsive riguardo all'igiene o alla totale mancanza di igiene, con
crisi depressive o pianto irrefrenabile: fino a quando sei in grado di
presentarti al lavoro e di pagare il tuo contributo alla società, non
costituisci una minaccia. Lo diventi quando il calice trabocca e, all'improvviso,
scegli di scendere in strada con una mitragliatrice, di entrare in un cinema e
di ammazzare quindici bambini per mettere in guardia il mondo che Tom e Jerry
sono dannosi per l'educazione: fino a quando non fai tutto questo, sei condannato
a essere normale.
E la follia? La
follia è l'incapacità di comunicare.
Tra la normalità e
la follia - che, in fondo, sono la stessa cosa – esiste uno stadio intermedio:
si chiama "essere diversi". E le persone hanno sempre più paura di
"essere diverse".
In Giappone, dopo
aver riflettuto a lungo sulla statistica canadese, mi venne l'idea di un libro
sulla mia vicenda personale. Scrissi Veronica decide di morire in terza
persona, utilizzando il mio ego femminile, perché sapevo che ciò che interessava
non era la mia esperienza del ricovero, bensì
il rischio di essere
diverso e l'orrore di essere uguale. Quando finii il testo andai a parlare con
mio padre. Dopo il difficile periodo della mia gioventù, i miei genitori non
riuscirono mai a perdonarsi per ciò che avevano fatto. Gli ho sempre ripetuto
che non era una cosa particolarmente grave e che la prigione - sono stato
arrestato tre volte per motivi politici - mi aveva segnato molto di più. Loro,
però, non hanno mai creduto alle mie parole e si sono sempre sentiti in colpa.
"Ho scritto un
libro sul manicomio", dissi a mio padre che aveva ottantacinque anni.
"è un'opera di fantasia, ma in due pagine compaio come personaggio. Questo
renderà di pubblico dominio i miei ricoveri negli ospedali psichiatrici".
Mio padre mi guardò
negli occhi e disse: "Sei sicuro che questo non ti danneggerà?".
"Non mi
danneggerà, papà".
"Allora fa'
pure".
Ero ormai stanco di
mantenere il segreto.
Veronika decide di
morire è uscito in Brasile nell'agosto del 1998. A settembre avevo già ricevuto
più di 1.200 tra E-mail e lettere, in cui mi venivano raccontate esperienze
simili. A ottobre, alcuni dei temi affrontati nel libro - la depressione, la
sindrome da panico, il suicidio... – sono stati trattati in un seminario che ha
avuto ripercussioni nazionali. Il 22 gennaio
di quest'anno, il senatore Eduardo Suplicy, leggendo alcuni brani del libro
durante una seduta parlamentare, è riuscito a far approvare una
legge - in
discussione da ben dieci anni - che vieta i ricoveri coatti.
Traduzione di Rita
Desti