Il caso Sai Baba

Miracoli dall’India?

PierLuigi Zoccatelli

La scoperta e il fascino dell’India sono ormai da qualche decennio un dato acquisito nella vasta mappa della religiosità contemporanea, e particolarmente gli anni Sessanta e Settanta del nostro secolo hanno visto crescere, soprattutto nelle fasce giovanili, un’ampia fioritura di nuovi movimenti religiosi ispiratisi alla lontana spiritualità dell’India. Chi non ha avuto occasione di notare per le strade delle proprie città i festosi e rumoreggianti Hare Krishna, alla cui origine — anche se il movimento affonda le proprie radici nella religiosità popolare indiana del Cinquecento — si trova la figura di Bhaktivedanta Swami Prabhupada (1896-1977), o i colorati discepoli "arancioni" del controverso Bhagwan Shree Rajneesh (1931-1990)? E chi non ha sentito parlare della Meditazione Trascendentale di Maharishi Mahesh Yogi — che dichiara di non essere una religione, ma una tecnica per il benessere del corpo e dello spirito —, che a suo tempo si rese celebre per avere conquistato alla sua tecnica i Beatles e l’attrice Mia Farrow? Oppure, solo per svolgere una veloce e assai ridotta elencazione, a chi non sono familiari i nomi della Società della Vita Divina fondata da Swami Sivananda Saraswati (1888-1963), di Paramahansa Yogananda (1893-1952), di Meher Baba (1894-1969), di Swami Muktananda (1908-1982), di Ramana Maharshi (1879-1950), di Sri Aurobindo (1872-1950), e delle filiazioni di cui sono all’origine?

D’altro canto, la spiritualità indiana "esportata" in Occidente non è solo la figlia della "controcultura" tipica dei periodi della contestazione studentesca, che pure ha svolto una funzione non indifferente in questa particolare forma di risveglio religioso, e neppure bisogna fraintendere l’importanza numerica in Occidente di questa variopinta — anche in senso letterale — spiritualità che affonda le radici in quella "seconda terra santa" delle religioni che non è la Palestina, da dove si sono diffusi nel mondo l’ebraismo e il Cristianesimo, ma il subcontinente indiano.

Spesso infatti i movimenti in questione contano "solo" alcune decine di migliaia di discepoli; certo pochi se paragonati ai milioni di fedeli che contano le innovazioni religiose occidentali come i mormoni o i testimoni di Geova. Eppure, una corretta interpretazione deve tenere conto non solo del dato numerico e quantitativo, ma anche di quello qualitativo. Infatti, se i seguaci in senso stretto di queste miriadi di gruppi sono — come dicevamo — solo alcune decine di migliaia (fatta eccezione, probabilmente, della Meditazione Trascendentale, e senza confondere la nuova religiosità di origine indiana con quella estremo-orientale, ben maggiore è il numero di quanti si lasciano ispirare alla spiritualità dell’India nelle tecniche meditative, nella scelta di medicine alternative, di diete esotiche, e non di rado — le statistiche a questo proposito non sono affatto incoraggianti — nelle convinzioni fondamentali sulle origini e il destino dell’uomo: il caso della credenza nella reincarnazione sembra proprio essere un termometro particolarmente caldo.

1. Nuova luce dall’Oriente?

 L’interesse degli occidentali per l’India ha una storia lunga, a cui tuttavia non sono affatto estranei i postumi di quell’enorme episodio della modernità costituito dalla Rivoluzione francese del 1789; un periodo che è all’origine — o che è l’esito, secondo la visuale — di un movimento di critica al Cristianesimo così radicale, tanto da indurre molte persone a cercare forme di religiosità alternative. Alla testa di questo movimento neo-spirituale di interesse per l’India troviamo — nella seconda metà dell’Ottocento — la Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York dall’occultista russa Helena Petrovna Blavatskaya (1831-1891) e dall’avvocato americano Henry Steel Olcott (1832-1907).

Ma se la ricerca di una luce a Oriente da parte dell’Occidente ha svolto certamente un ruolo decisivo, di non minore importanza è quel fenomeno che lo specialista Massimo Introvigne ha definito "l’Oriente in missione in Occidente". Si tratta di una nozione chiaramente descrittiva e che tiene conto della complessità del fenomeno. Nondimeno, se è vero che esistono scuole di pensiero induista che considerano poco appropriato il trasferimento della propria tradizione fuori dal contesto dell’India, altri considerano questa opzione come auspicabile. Lo storico dei nuovi movimenti religiosi Jean-François Mayer riferisce a tal proposito le affermazioni di un autorevole maestro indù: "Voi avete spesso sentito dire che l’induismo non è una religione proselitistica, che è necessario essere nati indù per essere indù. Quanto sono ridicole queste nozioni! [...] Perché si dovrebbe rifiutare l’accesso alla sua religione a un’anima nata in America, ma che era indù nella sua precedente incarnazione?".

Questa presenza indiana in Occidente — la si voglia o meno chiamare missione — vede un suo momento rappresentativo e culminante nel Parlamento Mondiale delle Religioni, organizzato a Chicago nel 1893, quando si presentarono per la prima volta al pubblico occidentale (grazie anche alla mediazione della Società Teosofica) alcuni autentici maestri dell’India, fra cui Swami Vivekananda (1863-1902), il discepolo prediletto del mistico Sri Ramakrishna (1836-1886), definito dallo scrittore Romain Rolland "la consumazione di duemila anni della vita spirituale di trecento milioni di indù". Dopo il grande successo riscosso in quell’occasione da Vivekananda, spesso ricordato come "il san Paolo" dell’induismo per il suo incessante lavoro missionario in Occidente, i maestri indiani favorevoli a visitare le terre occidentali a fini di proselitismo si moltiplicheranno a dismisura, sino ad arrivare alla situazione odierna.

2. Spiritualità indiane

 Prima di esaminare le caratteristiche di un movimento religioso proveniente dall’India, sarà opportuno insistere su alcuni concetti chiave utili alla comprensione del fenomeno di cui ci occupiamo.

Delle quattro vie — la via della devozione, la via della conoscenza, la via dello yoga e la via dell’azione illuminata — attraverso cui l’esperienza religiosa indiana si mette in relazione con l’assoluto impersonale, o almeno transpersonale (Brahman), per liberarsi dal tempo, luogo del degrado ontologico e del male, lo studioso canadese Richard Bergeron individua due modalità che caratterizzerebbero particolarmente le nuove religioni di origine indiana che si sono diffuse in Occidente: la via della devozione e la via della conoscenza.

3. Il caso di Sathya Sai Baba

 Nella storia dei santi indiani, fino a pochi anni fa, il Sai Baba più noto era l’asceta di Shirdi nato intorno al 1856 e morto nel 1918, la cui tomba è diventata un luogo di pellegrinaggio. Oggi, chi parla di "Sai Baba" intende normalmente riferirsi a Sathya (o Satya) Sai Baba, nato nel 1926 a Puttaparthi, nel Sud dell’India, dove tuttora vive e dove attira ogni anno diverse decine di migliaia di pellegrini.

Chiamato alla nascita Satyanarayan Raju, il giovane Sathya conosce fin dalla più tenera età una serie di esperienze mistiche e di fenomeni straordinari, finché a quattordici anni entra in uno stato di esaltazione (sembrerebbe provocato dal morso di uno scorpione) al termine del quale, il 23 maggio 1940, dichiara: "Sono Sai Baba", assumendo il nome di Shirdi. Da allora Sathya Sai Baba si è proclamato avatar — ovvero incarnazione del Dio-Uomo che si ripresenta ciclicamente, in una e talora più incarnazioni per ogni epoca storica; un concetto da non confondere assolutamente con l’incarnazione di Gesù Cristo che è unica, e in questa unicità sta tutta la specificità del Cristianesimo —, e anzi "avatar integrale" (purnavatar) come Krishna, mentre Gesù Cristo, a suo dire e alla pari di Ramakrishna e Aurobindo, sarebbero stati soltanto amshavatar, "avatar parziali".

Contrariamente a Meher Baba, per cui i miracoli appartengono a una sfera inferiore, Sathya Sai Baba affida la prova del suo carattere di avatar ai segni straordinari o sidddhis. I suoi seguaci gli attribuiscono ogni sorta di miracoli, sia nel regno psichico (chiaroveggenza, profezie, apparizioni ai suoi seguaci in ogni parte del mondo) sia, soprattutto, nel regno fisico. Dalle mani di Sathya Sai Baba esce ogni giorno una cenere sacra (vibhuti) a cui sono attribuite ogni sorta di proprietà miracolose e guaritive. Il maestro sarebbe inoltre stato capace di "materializzare" oggetti di ogni genere, in particolare statuette devozionali, anelli d’oro, il linga o simbolo fallico di Shiva che Sathya Sai Baba fa uscire dalla sua bocca una o due volte all’anno in occasione delle feste della divinità e perfino monete d’oro americane che recano, come data del conio, l’anno di nascita del devoto per cui sono state "prodotte".

I fenomeni tendono naturalmente a concentrare tutta l’attenzione dei devoti sulla figura di Sathya Sai Baba piuttosto che sul suo insegnamento, che presenta caratteri meno complessi e originali. L’"uomo dei miracoli", come viene chiamato, invita a tornare alle scritture tradizionali dell’India in termini piuttosto conservatori. Il suo è del resto un messaggio profetico, "trinitario" nel senso che Sathya Sai Baba costituisce una trinità con Sai Baba di Shirdi e con un "Prema Sai Baba" che apparirà nel distretto di Mandya, in India, dopo la morte di Sathya di cui egli annunzia fin d’ora l’anno, il 2022. Molti devoti pensano che l’apparizione del Prema Sai Baba segnerà il ritorno dell’età dell’oro.

Contrariamente a quanto si ritiene talora in Occidente, i fenomeni di Sathya Sai Baba non attirano l’attenzione soltanto degli occidentali, e i suoi seguaci sono numerosi in tutto il Sud dell’India. Le pretese di Sathya Sai Baba — straordinarie anche per un maestro indiano della nuova generazione — sconcertano molti, ma attirano e affascinano altri: centri a lui dedicati esistono in una cinquantina di nazioni ed è certo che in numerosi Paesi il gruppo è il più conosciuto fra quelli di origine indiana. Al dato non è estranea l’Italia, che conta circa diecimila discepoli, e i giornali se ne occupano spesso con una certa curiosità, anche perché uno dei suoi leader è Antonio Craxi, fratello dell’ex segretario socialista.

 

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